Aprendendo Julia

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Colpo grosso con volatile

Parole di Mary Clemens & Daniel Giovannini. Illustrazioni di Francesca Romano

Certe storie sono tanto semplici quanto bizzarre: durante il suo ultimo anno di liceo, Mary Clemens rubò un’oca di ceramica dalla veranda del suo professore di inglese e insieme, lei e l’oca, viaggiarono per il mondo. O perlomeno visitarono i luoghi più interessanti di una cittadina dell’Idaho. Un racconto basato su una storia vera.

Le oche sono creature feroci, aggressive e piene di risentimento come poche altre nel regno animale. Normalmente. Quella di cui diventai intima conoscente, tuttavia, non era niente affatto così. Un’anima quieta e acquiescente, tollerava le mie avventure con la leggera riluttanza di un amico che stia sempre quasi per alzare le mani in aria, voltarsi e andarsene. Fosse stata un’oca viva e vegeta, appollaiata tutta piena di sé su quella veranda, non mi ci sarei neppure avvicinata. Ma ciò che strappai dalla veranda quel silenzioso e limpido mattino era un’oca di ceramica. Mi allontanai portando sotto il braccio una stravagante bestia proveniente dallo stesso reame degli nani da giardino e delle statuette di gesso, un rigido oggetto a forma di animale con una perpetua espressione indignata, lo sguardo fisso a mezz’aria con la sorta di espressione ottusa che significa “va be’” in qualunque lingua silenziosa le oche parlino. Mi stropicciai gli occhi con l’altra mano e me ne andai via da lì in tutta fretta mentre una paranoia ansiosa mi stava assalendo.

La veranda era attaccata a una villetta unifamiliare, con un giardino discretamente ampio sul retro, situata su una strada residenziale priva di nota in una cittadina priva di nota in una contea priva di nota, accoccolata ai piedi delle Montagne Rocciose. La mia storia si svolge nel 2005, durante il mio ultimo anno di liceo. La mia classe conteneva ventidue persone; frequentavo una piccola scuola. Ero una ragazzina di diciassette anni con una busta d’erba e un po’ di tempo libero. L’erba aiuta a sopportare una mancanza di distrazioni, donando un tanto necessario senso di meraviglia a un qualunque evento di tutti i giorni.

Alla fine dell’anno, il mio professore di inglese ci invitò tutti a casa sua per una grigliata, tutti e sei — era quello il numero di studenti che frequentavano le sue lezioni. Andando via dalla festa, notai l’oca di ceramica sulla veranda anteriore della sua casa. Nel mio acuto stato mentale, mi venne immediatamente l’idea per uno scherzo ma la tenni per me perché ero circondata da spioni. Tanti progetti si stavano delineando nella mia testa. Mi resi conto che, in quanto studente dell’ultimo anno, ero in una posizione unica per poter trafugare l’oca; stavo seguendo solo alcune lezioni, perciò non dovevo essere a scuola prima di mezzogiorno. Potevo facilmente passare da lui prima di scuola quando nessuno era a casa e impadronirmi dell’oca. Il che, niente affatto soprendentemente, è esattamente ciò che feci.

“Voglio vedere il mondo”, disse l’oca rapita.

Non avevo mai messo piede a Parigi né rubato un nano da giardino, ma come molti altri nel mondo occidentale avevo visto il film francese Amélie. Nel film, la vivace parigina Amélie Poulain ruba il nano da giardino di suo padre, che affida a una hostess chiedendole di scattare fotografie dello gnomo in famose località straniere. E così rubai l’oca di ceramica dalla veranda del mio professore di inglese. E sì, viaggiammo. Non che andammo in posti esotici ma, in fin dei conti, la vista immutabile dalla veranda del mio professore dev’essere stata quanto di meno eccitante esista perfino per un’oca di ceramica. Una volta tornata sana e salva a casa dopo il furto dell’oca, acconsentii tacitamente al desiderio dell’oca e, nel corso delle settimane seguenti, la portai a fare foto in giro per la città.

“Voglio vivere la vita come se non ci fosse domani”, disse il volatile, incapace di volare.

Con l’aiuto di un’amica che frequentava un’altra scuola portammo l’oca in giro per alcuni punti di interesse locali, che inclusero: la piscina di palline colorate del McDonald; uno studio di tatuaggi, dove il corpulento tatuatore di una gang di motociclisti finse di tatuare l’oca; il lago, sdraiata su un telo da spiaggia; il videonoleggio, esaminando video a luci rosse; un grande, lussuoso resort in zona, seduta di fronte al camino, leggendo Giovanna d’Arco (un compito per scuola); dietro il bidone della spazzatura del Kentucky Fried Chicken, fumando una sigaretta; la pista di pattinaggio — legammo del filo da pesca intorno all’oca così che apparisse come se stesse pattinando da sola.

Per settimane, ogni notte correvo a casa del mio professore nel mezzo della notte consegnando fotografie e richieste di riscatto. La mia preferita diceva: “Dolce è la vendetta, l’oca è nostra!” La prima volta che il nostro professore menzionò il furto dell’oca in classe fu dopo aver iniziato a ricevere le foto. Sia lui sia la moglie trovavano la vicenda divertente e amavano ricevere le buste sigillate ogni mattina. La moglie iniziò perfino a raccogliere fotografie e note in un album, cercando di collegare gli indizi.

“Non voglio tornare a casa, non ora, non ancora”, mi disse l’oca una notte mentre stavo riempiendo un’altra busta. Le diedi una pacca sulla testa, tirai su il mio cappuccio e mi preparai per correre verso la casa del professore con l’aiuto delle tenebre.

Trascorrevamo ore speculando su chi potesse essere il colpevole; nessuno dei miei compagni di classe sapeva del mio scherzo e certamente nessuno sospettava di me. Il nostro professore offriva alla classe un verbale completo ogniqualvolta appariva una nuova lettera. Interrogò anche ogni singolo studente, inclusa me. L’intera esperienza lo rendeva ilare. Non ho mai visto un uomo adulto diventare tanto innamorato di sé perché qualcuno stava dedicando del tempo per mettere insieme una tanto elaborata burla a sue spese. Una burla a cui valse la pena dedicare tempo, fosse anche solo soltanto per le sue reazioni. Non mi sentivo come una giovane Amélie monella; ero più un incrocio tra Zorro e qualche burlone mitologico.

Avevamo convissuto per un bel po’, a quel punto. Intendo l’oca ed io. Aveva cominciato a essere irrequieta. “Mi manca la mia casa”, disse. Aprii un’altra birra, seduta accanto al volatile, guardando il tramonto insieme. “Arriva un momento in cui devo tornare al posto da cui vengo”, disse a mezza voce, chiaramente ancora non vittima della versione aviaria della sindrome di Stoccolma. Non essendomi ancora dedicata a una vita di crimine, scossi la testa, abbracciai l’oca e acconsentii a restituirla al suo focolare e al suo ruolo nella sua famiglia adottiva il giorno successivo.

In verità, non andò così. Avevo dall’inizio avuto intenzione di restituire l’oca. È stato solo per fare del terrorismo psicologico che la restituii un mese prima del mio diploma. La lasciai con discrezione sulla loro veranda. Non allegai alcuna nota, fotografia o spiegazione. Lo feci perché sapevo che stavano aspettando una qualche conclusione drammatica e negargliela li avrebbe fatti impazzire.

Prima di restituire il volatile, mi scattai una foto in cui lo tenevo in braccio. Passai la fotografia agli studenti responsabili della presentazione per la cerimonia di consegna dei diplomi, insieme a una piccola bustarella per comprare il loro silenzio. Essendo in una piccola classe, quando uno studente andava a ritirare il suo diploma, delle sue fotografie venivano proiettate su uno schermo e qualcuno spiegava perché eravamo i migliori studenti che ci fossero. A quel punto, tutti gli studenti e i professori sapevano del rapimento dell’oca ma il colpevole era ancora in libertà.

Ricorderò per sempre il suono dell’intero uditorio, quando la fotografia fu rivelata e tutti rimasero senza fiato per la sorpresa.

Non molto è successo da allora. Non ho rapito un’altra oca, è tutto ciò che posso dire. Presi il mio diploma e passai oltre, lasciandomi alle spalle il grigiore del microcosmo scolastico. La vita proseguì come al solito, nei mesi che precedettero il grande colpo della renna natalizia. Ma quella è un’altra storia.

Mary Clemens è una professionista nel settore sanitario a Boise, Idaho. Ama Reddit, la buona cucina (qualsiasi) e il suo pastore tedesco Charlie. Francesca Romano sta finendo un Master in Book Design alla University of Reading. Il fatto che ami l’Inghilterra non la salva dall’esaurimento; almeno in questo, l’illustrazione è una delle poche cose che aiuta. — Traduzione di Daniel Giovannini.

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